Troppe foto poche emozioni in vacanza

16 Luglio 2022



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Una fotografia sul turismo

In un suo libro sui viaggiatori, Roberto Lavarini, nel 2006, scriveva:

Viaggiare non è più un evento straordinario. Tutti viaggiano e per vari motivi. È più facile che nel passato, c’è più tempo a disposizione, i mezzi di trasporto sono più veloci e confortevoli e, in generale, si parte con un buon bagaglio di informazioni. Spesso, il viaggio e la meta si conoscono già prima di partire, grazie a Internet o a minuziose guide, nulla è più lasciato al caso.
Si comincia a viaggiare fin da piccoli con i genitori, poi lo si fa con la scuola ed è sempre più anticipata l’età del primo viaggio da soli o in compagnia di qualche coetaneo. Le ferie, le vacanze e i viaggi diventano una necessità, un diritto per chiunque lavori. Lo sono anche per gli anziani che, ormai diventati buoni viaggiatori, si spostano in ogni stagione verso luoghi sempre più lontani alla ricerca di cultura e di benessere. Il viaggio sta trasformandosi o si è già trasformato in bene di consumo primario. È talvolta un po’ costoso e la spesa va spesso pianificata, ma lo si carica di grandissime potenzialità. Infatti, è al viaggio che si affida il bisogno di emozionarsi, la sensazione di benessere, il desiderio di socialità, la gratificazione culturale, la curiosità. Il viaggio è un’esperienza che lascia una traccia, porta alla scoperta di sé e di ciò che è altro da sé. Trasforma, fa crescere.

Una foto, cento, mille foto

Oggi ci domandiamo: è ancora così? Dopo una pandemia che ha cambiato noi e le nostre abitudini credo che il viaggiare rappresenti per le persone ancora un valore notevole e un’esperienza essenziale anche se, dopo l’amplificarsi e il generalizzarsi dell’uso di Internet durante l’isolamento forzato degli scorsi anni, è ancor più vero che le mete sono già conosciute prima di raggiungerle, viste e riviste su siti, in foto e video, e valutate minuziosamente da recensioni on line.

Moltissimi turisti hanno percorso e continuano a percorrere le stesse strade. Tutti fotografano tutto. Immagini che ritroviamo poi ovunque tanto che si arriva al paradosso che il “mai visto” è “fin troppo visto” e che il lontano è fin troppo vicino al quotidiano.

Già negli Anni ’70, Susan Sontag, nonostante riconoscesse l'importanza del raccogliere fotografie perché significa collezionare il mondo che rappresentano, riscontrava nell'eccesso una conseguenza spiacevole e osservava che "...i tramonti: disgraziatamente assomigliano ormai troppo a fotografie".

Fine della meraviglia e peak experience

Di conseguenza, è ormai impossibile rivivere la meraviglia e lo stupore provati dal pellegrino dei secoli scorsi mai uscito prima dal proprio villaggio, davanti al santuario solo immaginato e descritto attraverso le testimonianze dei compaesani che vi erano stati. Numerosi racconti di viaggio dei secoli scorsi riportano fedelmente le emozioni e lo spaesamento dei visitatori alla vista di città, paesaggi, monumenti per loro inimmaginabili.

Oggi, per il turista abituale è impossibile mantenere per tutta la vita il ricordo indelebile dei viaggi di nozze dei nostri nonni che in quell’occasione per la prima volta nella loro vita e spesso per la sola volta, si potevano concedere la visita di Venezia, Roma, Pompei. Tutto questo a noi è precluso anche se, durante i nostri viaggi, ci possono essere dei momenti in cui riusciamo a provare quella che Abraham Maslow definiva Peak Experience, in cui viviamo per un breve istante una sensazione straordinaria di conciliazione con l’essere, di annullarsi del tempo invece del suo uso strumentale per fare foto, una sensazione di benessere, di pace con noi stessi e con il mondo che può provocare euforia e felicità. (A.H. Maslow, Toward a psychology of being, Van Nostrand-Reinhold, New York, 1968)

Tutto ciò può provenire da semplici e inattese esperienze di fronte a un tramonto, alla vista di un paesaggio dove entriamo in sintonia con i suoi colori, i suoi odori e con i suoni che ci circondano, dove i nostri sensi si acuiscono permettendoci di percepire quello che quotidianamente ignoriamo e abbattendo ogni confine fra noi e la realtà esterna. Questo può avvenire anche di fronte a un’opera d’arte, al contatto con delle persone, immergendoci nell’atmosfera di una città. Alcune sensazioni ci ricordano quelle provate nello “stato nascente” che descrive Alberoni, altrettanto improvviso, inaspettato, dirompente. (F. Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano, 1979)

Osservazione non mediata

Ma cosa impedisce il realizzarsi della Peak Experience, sempre più rara nei nostri viaggi? Oltre al fatto già accennato della conoscenza pregressa di ciò che ci aspetta, della perduta unicità del viaggiare, uno degli elementi che a mio avviso ci precludono la capacità di entrare in comunione e in sintonia spontanea con ciò che ci circonda è il nostro atteggiamento di fronte a ciò che vediamo e alla tendenza sempre più diffusa di mediare il nostro rapporto con l’esterno attraverso l’occhio della macchina fotografica o del cellulare.

L’attenzione che poniamo a inquadrare le immagini, a farci selfie e a postarli o a pensare a chi inviarli spesso in tempo reale ci distoglie dall’immergerci completamente in ciò che vediamo, dal lasciarci trascinare dalla sua bellezza annullando per un attimo il tempo dell’orologio, lo spazio che ci separa da quello spettacolo e dagli altri attorno a noi.

In una ricerca del 1988, sui turisti provenienti da Hong Kong ci stupivamo perché l’87% degli intervistati, parlando del loro ultimo viaggio oltremare, menzionava come prima attività in assoluto l’aver scattato foto o raccolto immagini con la cinepresa. In effetti, già dalla sua invenzione, la macchina fotografica è divenuta uno strumento indispensabile di viaggio. È il momento dei pionieri che esplorano l’America e trasmettono al mondo curioso le testimonianze sulla vita quotidiana degli ultimi indiani, oppure, degli archeologi che scoprono i misteri dell’antico Egitto. Il suo sviluppo va di pari passo con la diffusione dei viaggi in bicicletta e in auto e le illustrazioni dell’epoca ci rappresentano spesso il turista con auto e grossa macchina fotografica che si esibisce intento a riprendere i paesaggi.

La fotografia turistica, a cavallo tra il reportage etnografico e la registrazione di ‘vedute’ paesaggistiche secondo i canoni della pittura, si è diffusa sensibilmente tra l’800 e il ’900 presso le classi borghesi fino a divenire un vero status symbol per i viaggiatori, un hobby d’élite, testimoniato dalla presenza in almeno di 300 alberghi in Italia una camera oscura a disposizione dei clienti. (Italo Zannier, Storia della Fotografia Italiana, Quinlan,2012)

Il Touring Club Italiano a fine ‘800 istituisce una sezione fotografica per testimoniare realtà paesaggistiche, artistiche e sociali. Le foto acquisiscono così anche uno scopo di testimonianza e preservazione del presente. Ma questo non succede esclusivamente in Italia. È stato solo grazie alle belle foto in bianco e nero di William Henry Jackson del 1871 che il Congresso degli Stati Uniti prese la decisione di istituire il primo parco naturale nazionale di Yellowstone senza che nessuno dei suoi membri si recasse sul posto, grazie a una testimonianza solo “virtuale”. (Maurizio Capobussi, Appunti di Fotografia turistica, Milano, 3-12-1998)

In seguito, il legame tra fotografia e turismo, già ben consolidato, assume dimensioni nuove, potenzialmente di massa, con l’introduzione della macchinetta portatile. Si diffonde allora la foto-cartolina che è la celebrazione di solito stereotipata di monumenti o paesaggi con la funzione sociale di veicolare i saluti a parenti e amici. Non dimentichiamo che il viaggio dà la possibilità di acquisire status, prestigio sociale, valorizzazione della propria persona, per cui si comprende meglio perché tutti i turisti in luoghi lontani vogliano diventare anche fotografi e diffondere le loro immagini su Facebook, Istagram, Whatsapp o su ogni social e mezzo a disposizione.

Il turista è affascinato dalla propria riproduzione ingigantita presso i monumenti o affiancata alle guide locali nei loro costumi tradizionali quasi a mostrare quel legame sognato con la popolazione locale in realtà mai avvenuto.

Fotografie ricordo e finzione

a fotografia risponde bene all'esigenza, sempre insita nell'uomo, di portare con sé una traccia tangibile e visibile delle esperienze vissute in viaggio. Quindi, di ciò che ha visto. Una sorta di souvenir simile alle reliquie che portavano con sé i viaggiatori dell’antichità e del medioevo o alle conchiglie, ai sassi e ai frammenti di elementi naturali o artificiali incontrati nei propri viaggi che portiamo ancora oggi con noi al ritorno. Anche la fotografia è una parte staccata dalla realtà, un suo frammento portato a casa con la funzione di riattivare il ricordo, riprovarne le emozioni, sentire di nuovo gli effetti benefici del viaggio.

Perciò, se nella vita quotidiana la fotografia veniva utilizzata fino a qualche decennio fa per immortalare eventi straordinari – oggi si riprende anche ogni momento quotidiano- era ed è indispensabile, a maggior ragione, nel viaggio, che è già di per sé un fatto straordinario e, in quanto tale, deve essere fissato per riportarlo alla memoria.

Ci sono, però, delle incongruenze. Innanzitutto, la fotografia è qualcosa di immobile, di fisso e parziale: non può rappresentare il viaggio che per definizione è dinamico. La sequenza delle numerose foto scattate disperse nel cloud non darà mai il ritmo del viaggio, non riuscirà mai a riprodurre la vera essenza del percorso. È una memoria fissa, implacabile, ma morta.

Quando un giovane keniano portò al padre la piantina del territorio in cui viveva e, con entusiasmo, gli mostrava i sentieri, i torrenti, i diversi villaggi, il padre l’allontanò da sé dicendo: “È falsa, perché qui non c’è la fatica che faccio nel camminare per quelle strade”. (Roland Abrecht, La mémoire pétrifiée, in “Autrement” n° 111, pag. 91)

Anche le riprese video, seppur animate, non fanno che riprodurre una frazione dei movimenti vissuti in uno scorcio parziale ed escludono dal ricordo gli odori, il calore della scena, le sensazioni e i sentimenti che dovrebbero essersi scatenati nel turista se questi non fosse stato troppo impegnato a inquadrare e zoomare. Infatti, ricorrere all’attività fotografica per ricordare successivamente i momenti più significativi di una esperienza, di un viaggio, senza fare alcuno sforzo per archiviarli nella propria mente, porta a scattare una quantità di foto inutili che poi, riguardandole, non richiamano più nulla, nessuna sensazione, nessuna emozione. Come possono quindi venire riprese tali emozioni e sensazioni solo guardando le foto? Non ricordano i suoni, le musiche, gli odori o i profumi, non fanno tornare alla mente il sapore di un cibo, la morbidezza di un tessuto perché già nella realtà, nel momento in cui si sono scattate, si era troppo impegnati per provare sensazioni o emozioni.

Fuori dalla fotografia, l'esperienza

Insomma, la foto non mostra mai ciò che l’individuo ha visto, ma ciò che ha visto l’apparecchio. Ciò che l’individuo percepisce non può essere ripreso né fissato. Anzi, secondo alcuni, l’abuso di scatti fotografici porterebbe al progressivo impoverimento della capacità di guardare o segnalerebbe la perdita di tale capacità. Speriamo che in un breve futuro si riesca, almeno quando si è in vacanza, a prendersi una pausa da questa mania di selfie, di scatti su tutto e su tutti e della loro condivisione immediata per godere appieno, anche in un modo forse un po’ egoista, dello scopo del nostro viaggio, cioè del beneficio che ci attendiamo arrivati a una meta, spesso lontana e raggiunta con sacrifici.

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Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.

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