Invidia. Una passione triste

20 Ottobre 2021



Invidia. Una passione triste
Invidia. Una passione triste

Il ritornello dell'invidioso che si avvita su qualcosa che gli manca è questo: "Perché un altro ha quello che io non ho?"

L'invidia ha la sua etimologia nel latino in-videre, che significa guardare contro qualcuno. Sta a significare "uno sguardo malevolo e intriso di rancore", che si nutre nei confronti di qualità e beni di cui un altro gode.

Per la religione cattolica l'invidia è annoverata tra i sette peccati capitali. È un sentimento che cela una profonda ostilità nei confronti di chi possiede ciò che si desidera. L'invidioso è chiuso in una penombra abitata dalla privazione, non ha mai quello che vorrebbe. Si sveglia pensando a qualcun altro con astio. Lancia invettive all'indirizzo di chi possiede ciò che lui non ha. Si crogiola nel vittimismo tirannico di chi non può avere quella cosa, perché appartiene a un altro.

Nel Purgatorio di Dante gli invidiosi hanno gli occhi cuciti da un filo di ferro. È questo il contrappasso. Non possono vedere il sole che rappresenta anche l'amore per la carità. 

Si fa spesso confusione tra invidia e gelosia, emozioni create entrambe dal possesso, ma molto differenti. Il geloso teme che gli venga sottratto ciò che possiede, sia esso un oggetto o l'esclusiva attenzione/amore di una persona. L'invidioso vorrebbe invece ciò che non ha e che l'altro possiede, a suo parere senza alcun merito e come prova di una intollerabile ingiustizia.

Quindi, mentre l'invidia nasce all'interno di un rapporto duale, la gelosia scaturisce dalla presenza di un terzo. Riprendendo la metafora della "vista", quando uno di due, all'interno di una relazione diventa strabico, cioè guarda un terzo, allora scatta la gelosia.

L'invidioso rinuncia a qualsiasi conquista. Cessa di essere avventuroso (dal latino ventura: le cose che verranno). Non immagina nemmeno di poter realizzare il suo desiderio. Lo lascia all'altro, ma spera fortemente che anche l'altro ne sia ugualmente privato. 

Secondo Johann Wolfang von Goethe, "c'è un solo passo dall'invidia all'odio".

Forse, per questa sottile contiguità, l'invidia è l'emozione che nessuno ammette di provare, in quanto contiene implicitamente l'ammissione della propria inferiorità insieme al desiderio di vedere l'altro danneggiato.

Si desidera qualcosa che qualcun altro ha. Ma allo stesso tempo ci si sente inferiori e incapaci di portare avanti qualunque azione per ottenerla.

Possiamo quindi individuare varie forme di invidia, tra cui le principali sono: l'invidia che sfocia in odio, un'altra che, al contrario, favorisce l'ammirazione e l’emulazione e, infine, un'invidia lieve che potremmo definire "malinconica."

In quest'ultimo caso si tratta di un sintomo che serve da schermo a un desiderio rimosso. Può essere la trasposizione di qualcosa che non osiamo avere o perseguire. Per esempio amare qualcuno ma non avere il coraggio di dichiarare il proprio sentimento, per paura, vergogna, inibizione o senso di inadeguatezza. Addirittura si può negare il proprio amore, uno stato mentale che può portare a invidiare chi riesce invece a esprimerlo e a viverlo.

Una paziente mi narrò di avere una madre invidiosa di lei, perché aveva avuto il coraggio di rompere un matrimonio prestigioso. La madre nutriva nei suoi confronti una sorta di risentimento perché, a suo dire, si era comportata in maniera sbagliata, rinunciando a un’occasione – sempre a detta della madre – che non si sarebbe più ripresentata. Aveva poi un corollario di atteggiamenti poco affettuosi nei confronti della figlia: era molto distaccata, non la cercava mai, si sottraeva ai tentativi di quest'ultima di recuperare di un dialogo. In seguito emerse che la madre in gioventù aveva rinunciato a un grande amore per un matrimonio di convenienza, ed era così arrivata a invidiare la propria figlia per la capacità di questa di aver seguito il proprio cuore nella scelta sentimentale.

Tuttavia, in questi casi, l'invidia assume le vesti non del crudele desiderio di vedere l'altro privato di quanto possiede, ma della malinconica consapevolezza di non aver saputo, al contrario dell'altro, perseguire con forza i propri desideri.

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Claretta Ajmone

Clara Ajmone, psicologa clinica e psicoterapeuta, ha lavorato per più di trent'anni in ambito psichiatrico, nelle Strutture Territoriali e Ospedaliere del Servizio Sanitario Nazionale. Fino al 2009 è stata Responsabile della Struttura di Psicologia dell'Ospedale di Niguarda, dove ha svolto attività di Psicoterapia individuale, familiare, di coppia e di gruppo. È stata didatta e tutor per psicologi allievi di varie scuole di psicoterapia.

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