La madre di tutte le dipendenze

17 Maggio 2023



La madre di tutte le dipendenze
La madre di tutte le dipendenze

La nostra stessa esistenza individuale inizia con una traumatica separazione: il trauma della nascita, come appunto si intitola una storica pubblicazione di Otto Rank - Il trauma della nascita - che, per citare lo stesso riferimento fattone da Freud (tr. it. 1991), rappresenterebbe l’origine di quella “fissazione primaria” alla madre che, se non superata, sarebbe all’origine della nevrosi come “rimozione originaria”.

La rottura della simbiosi primaria

La verità biologica di questo evento inaugurale dell’esser-ci – o dell’essere “gettati nel mondo” per usare una espressione di Sartre – si proietta emblematicamente in un racconto delle origini che rappresenta il mito fondativo della concezione giudaico-cristiana. Un angelo di fuoco caccerà i nostri progenitori da quell’Eden primario dove tutto veniva concesso senza sforzo alcuno ad una dimensione fatta di fatica – “guadagnerai il pane con il sudore della fronte” e di dolore “partorirai con dolore”.

L’unità originaria si è ormai irreversibilmente rotta. Ne deriverà una nuova realtà: quella “oggettuale”. La separazione cioè tra un soggetto ed un oggetto da cui inevitabilmente siamo condannati a dipendere. Il cibo, prima ineludibile fonte di sostentamento, non ci verrà più fornito in una beatifica appartenenza ad una unione simbiotica (come avveniva quando la nostra alimentazione avveniva attraverso un cordone ombelicale) ma attraverso una separazione tra soggetto desiderante/bisognoso ed un oggetto-seno materno che ci può venire offerto nei modi e nei tempi opportuni. O meno.

Questa stessa divaricazione tra soggetto e oggetto (oltre e più che la stessa traumaticità del parto) rappresenta l’incrinatura tragica a cui ogni essere vivente è condannato nell’affacciarsi al mondo. Una dimensione traumatica che, come sappiamo, disperatamente cercheremo di neutralizzare regredendo ad uno stato di coscienza (se non di realtà) non-oggettuale attraverso gli infiniti tentativi di ricerca coscienziale che puntano elettivamente a trascendere la dimensione “oggettuale” per recuperare quel beatifico “perdersi nel tutto” in cui la realtà individuale – o ego – possa ancora dissolversi nel “tutto” da cui originariamente si è separato. Questa è la prospettiva non solo della mistica paolina in quel “cupio dissolvi et esse cum Cristo”, ma anche – e soprattutto – della tradizione orientale che nella tradizione dell’Advaita Vedanta e del Buddhismo ci invita a coltivare stati meditativi attraverso cui poter trascendere l’ego per confluire in uno stato coscienziale percepito come espressione della coscienza cosmica e definito, appunto, “non oggettuale”.

Separazione e colpa

Nella tradizione ebraica questa rottura viene ricondotta ad una “colpa primaria” imputabile alla disubbidienza dei nostri progenitori. Non stupisce riscontrare un analogo paradigma anche nella tradizione vedica per la quale, all’origine della creazione, viene posto il dramma di Brahama. Il creatore dell’universo, infatti, decisosi ad uscire dallo stato meditativo autoreferenziale e di dare vita al mondo, crea, come prima creatura, una figura di donna. Una figlia, quindi. Ma l’immagine della creatura è talmente sensuale ed irresistibile che lui stesso se ne innamora. Si macchia così di un peccato nefando: l’incesto. Questa ineludibile colpa gli attirerà lo sdegno degli altri dei e la

decapitazione da parte di Shiva (per sua fortuna aveva cinque teste ...) che porterà con se il suo cranio usandolo come ciotola del mendicante-asceta.
Il collegamento tra separazione e colpa, su cui si fonda la concezione del mondo in queste culture, seppur discutibile, non stupisce. La sofferenza stessa, ineludibilmente collegata ad ogni processo di separazione (non a caso dia-ballo - separo in greco), rappresenta la radice di ciò che “dia- bolicamente” produce separazione e evoca una colpa all’origine della sofferenza che produce. Questo basic belief si connette verosimilmente ad una concezione molto diffusa per la quale il mondo, nella sua primaria concezione, rappresentava una creazione perfetta (vedi anche età dell’oro dei greci e luogo dove scorrevano latte e miele dei germani), nata da divinità onniscienti e che solo per intervento di fattori non previsti o comunque interferenti si è corrotto nelle forme di cui l’umanità ha esperienza e connotate da elementi di catastrofici e conflittuali.
Il “tradimento”, legato al vissuto di separazione ed emblematicamente rappresentato nella disubbidienza alla autorità paterna da parte dei nostri progenitori nel racconto della Genesi, viene sottolineato da vari autori (tra cui Eschilo nel “Prometeo”, E. Fromm in “Sarete dei”, James Hillman in “Puer Aeternus” e Aldo Carotenuto in “Amare tradire”) e rappresenta la “prova del fuoco” per l’individuo, il processo di separazione della propria individualità da quell’appartenenza al nucleo genitoriale da cui deriva la sua venuta al mondo.
Interessante, in proposito, il dato clinico riscontrabile nell’anoressia. “Cadere” nell’abbuffata o anche semplicemente nel concedersi una tregua ad un regime di digiuno esasperato, viene inevitabilmente accompagnato da un vissuto di colpa. L’etica della contro-dipendenza, in questo caso, implica il tentativo eroico di non cedere a nessuna seduzione collegata al dover dipendere da un cibo che, verosimilmente, rimanda ad una comunicazione simbiotico-regressiva con la figura materna dalla quale il vissuto adolescenziale tende disperatamente a distaccarsi. In questo caso la colpa non accompagna il tentativo di sottrarsi allo stato primario di dipendenza, ma alla tentazione di rientrarvi e la tendenza ascetica (vedi l’importante contributo di Mario Reda su Le sante anoressiche, 1996) evidenzia il disperato tentativo di affermare uno stato di in-dipendenza dai bisogni primari che, notoriamente, ci collegano allo stato di dipendenza ineludibilmente connesso al legame con le figure genitoriali.
Ci soffermeremo più avanti sul collegamento tra il trauma della separazione ed il ricorso alle droghe come forma di evitamento della stessa sofferenza. Vorrei piuttosto fermarmi sulla esperienza privativa collegata alle esperienze amorose e di forti vincoli affettivi che, di tutte le forme carenziali, rappresenta verisimilmente il paradigma originario di riferimento.

Un demone chiamato Eros

Che le “vicissitudini della libido”, per usare un termine caro a Freud, siano intrinsecamente collegate alla sofferenza, se non a thanatos (sul cui andrebbero fatti alcuni chiarimenti) non credo vi sia dubbio alcuno. Sullo scritto che rimane forse il più autorevole sulle “cose d’amore (ta erotikà), il Simposio di Platone, Socrate non esita a definirlo figlio di Poros (abbondanza, artifizio) ma anche di Penia (carenza) “Eros è un demone possente che sta tra i mortali e gli immortali. Figlio di povertà (Penia), Amore - riferisce Socrate - non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l'aperto cielo, nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiaramente la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà”.
E ancora Saffo si esprime con versi ineguagliati sulla tragica potenza della pulsione amorosa “Scuote l’anima mia, Eros, come vento sul monte che irrompe entro le querce e scioglie le membra e agita, dolce, amare, indomabile belva”.
La tempesta emozionale collegata alla “possessione amorosa” sembra essere soggetta a due movimenti parimenti violenti. La prima possiamo collegarla a quello stato di totale infatuazione ed idealizzazione collegata alla fase dell’innamoramento. La seconda alla privazione dell’oggetto d’amore.
Emblematico, ancora una volta, Platone “Non c'è nessuno che sia così vile che Eros non trasfiguri rendendolo divinamente ispirato alla virtù, al punto da farlo diventare simile a chi per natura è valoroso in sommo grado. E quel che Omero dice: "l'aver un dio infuso valore" a qualche
eroe; ebbene questo prodigio negli amanti lo fa Eros “potentemente da lui stesso” (Platone, Simposio, 179 a-b. La citazione di Omero fa riferimento a Iliade, canto X, v. 482 e canto XV, v. 262).

Tema riecheggiato all’infinito da poeti di tutti i tempi per i quali, valga per tutti la citazione da Flaubert nella sua L'éducation sentimentale (1869): “Ella era il punto luminoso verso cui tutte le cose convergevano. Parigi era ai suoi piedi e la grande città con tutte le sue voci risuonava intorno a lei come una grande orchestra”.

Un fenomeno, questo, colto lucidamente da Freud (1921) anche in relazione alla transferenza idealizzata che il paziente opera a volte sull’analista: “Chiamiamo "idealizzazione" quella tendenza che falsa il giudizio, [...] come avviene ad esempio invariabilmente nel caso delle infatuazioni amorose, dove l'Io diventa sempre meno esigente, più umile, mentre l'oggetto sempre più magnifico, più prezioso, fino a impossessarsi da ultimo dell'intero amore che l'Io ha per sé, di modo che, quale conseguenza naturale, si ha l'auto-sacrificio dell'lo. L'oggetto ha per così dire divorato l'Io”.

 

Tratto da: Craving. Alla base di tutte le Dipendenze.
Nizzoli, Caretti, Croce, Lorenzi, Margaron, Zerbetto. Mucchi editore Modena, 2011.

Condividi questo articolo

Ultimi articoli

Newsletter

La madre di tutte le dipendenze

Riccardo Zerbetto

Riccardo Zerbetto è psichiatra e direttore del Centro Studi di Terapia della Gestalt (www.psicoterapia.it/cstg). Già presidente della European Association for Psychotherapy (EAP) e della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP.). Co-fondatore di Alea-Associazione per lo studio del gioco d’azzardo e dei comportamenti a rischio. Direttore scientifico di Orthos, associazione per lo studio e il trattamento dei giocatori d’azzardo.

ARTICOLO PRECEDENTEPROSSIMO ARTICOLO
Back to Top
×